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Gonzo Girl, il film d’esordio alla regia di Patricia Arquette con Willem Dafoe e Camila Morrone

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RadioSapienza e Cinemonitor alla Festa di Roma con Alice nella Città

Presentato alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma, Gonzo Girl è la prima prova alla regia di Patricia Arquette, premio Oscar come miglior attrice non protagonista nel 2015 con Boyhood, che vede come protagonisti Willem Dafoe e Camila Morrone.

Gonzo Girl: un delirio de-formativo

La diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma spicca per la significativa presenza di registe che ci restituiscono uno sguardo femminile, troppo a lungo rimasto inespresso.

Una di queste è sicuramente Patricia Arquette, che debutta alla regia con il suo Gonzo Girl, presentato alla Première del 26 ottobre, per la sezione Grand Public, alla Sala Petrassi dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone. 

“Non l’avevo covato e nemmeno preventivato, è semplicemente successo, come tante cose della mia vita”, commenta la regista ai microfoni della rivista Elle. Inizialmente le era stata proposta una parte marginale, non memorabile ma neanche invisibile. La regista esordiente, però, non era del tutto convinta. E quando il regista designato non era più disponibile, comunicò alla produzione che avrebbe voluto dirigerlo lei. “Una botta di coraggio imprevista anche per me. Non ho mai fatto neanche una scuola di cinema come attrice, figuriamoci come regista. Ma ho frequentato la scuola della vita. Ho incrociato tanti registi, bravi e fortunatamente diversi. Per cui non ho dovuto rubare tutto da uno in particolare, ma qualcosa da tutti quanti”.

È proprio la scuola della vita ad emergere prepotentemente nella sua Opera Prima. Il film è tratto dal memoir di Cheryl Della Pietra, barista di giorno e aspirante scrittrice di notte, che negli anni Novanta si trovò a fare da assistente a Hunter J. Thompson, scrittore famoso e padre del Gonzo journalism. Con Gonzo si intende un giornalismo dallo stile particolare, che vuole essere veritiero senza dover essere rigidamente oggettivo. Ed ecco che trionfano considerazioni ed esperienze personali, commenti, sensazioni. A prevalere sui fatti sono gli umori, che regalano un racconto della realtà da una prospettiva diversa, distante dalla tradizionale concezione giornalistica. Negli scritti di Thompson il punto di vista dell’autore è spesso distorto dal consumo di droghe e alcool, a volte anche dichiarato nell’articolo stesso.

“È un film sulla dipendenza e sulla codipendenza, qualcosa che ho affrontato a lungo anche io”, continua Patricia Arquette per la penna di Elle. Il tema della dipendenza emerge in modo lampante in diverse forme nel lungometraggio. Le prime scene fotografano un mondo senza limiti, pieno di eccessi e di esperienze atipiche. Cocaina, acidi, alcool, pistole, sesso e rock and roll. Il trionfo della sfrenatezza. Sembra quasi di partecipare a un party de Il Grande Gatsby. Anzi, forse a una delle famose feste dei coniugi Fitzgerald. Ma nel 1992. Decennio sui generis, quello degli anni ’90. 

Queste dipendenze, però, non sono le uniche. Man mano che il racconto continua, la regista ha il particolare merito di sviscerare una dipendenza molto più profonda, meno superficiale, una dipendenza che ti brucia l’anima, quella delle relazioni personali. Ed ecco che tutto il resto diviene solo un contorno: le citazioni letterarie, le menzioni all’italianità e all’icona Anna Magnani, lo spacciatore eccentrico interpretato da un mitico Sean Penn, si fanno particolari marginali di un racconto che intende invece concentrarsi accuratamente su un’unica questione. Un Pigmalione affascinante e fuori fase e la sua adorata pupilla in cerca di un posto nella società. Il tutto immerso in un universo scorretto e sessista, che però Patricia Arquette riesce sapientemente a non far cadere nella caricatura e nello stereotipo. 

Alley Russo (interpretata da una sorprendente Camila Morrone, Premio Progressive alla Carriera assegnatole proprio in occasione della Première), aspirante scrittrice, entra nella tana del re degli eccessi, Walker Reade (uno straordinario Willem Dafoe, che mette in scena una vera e propria lezione di recitazione). Da quel momento, un susseguirsi di folli esperienze architettate da un istrionico scrittore famoso in rovina, vittima del suo stesso mito, che culminano con l’instaurarsi di un rapporto tossico e senza via d’uscita tra i due protagonisti. 

Lo snodo dell’opera di Patricia Arquette si mostra allora in tutta la sua imponente semplicità: il potere del linguaggio. Le parole creano legami, creano spazi nuovi dove potersi rifugiare, creano un nuovo futuro, libero da barriere economiche e sociali. È proprio il linguaggio ciò che ha salvato Walker Reade dall’ombra: gli ha donato qualcosa da raccontare, l’ha portato al successo, alla divinizzazione. Ma le parole sono state anche molto brave a nascondersi, a scomparire dall’universo sopra le righe del padre del Gonzo journalism. Reade, incapace di usare quelle stesse parole per guardarsi dentro, smarrisce completamente la via, perdendosi tra un eccesso e l’altro, inghiottito dal suo stesso personaggio. 

L’unica speranza rimasta era Alley, un’anima pura e “stupida”, come Walker stesso la definisce. Stupida perché ignara di essere solo all’inizio delle sue scoperte. Stupida perché inconsapevole delle sue stesse potenzialità. Stupida perché senza paura. 

Paura che invece Walker/Thompson sente parecchio: della decadenza, dell’oblio, della morte, del suo stesso mito ormai in pezzi. Paura che culmina, nella vita reale, con la decisione consapevole di porre fine alla sua vita nel 2005.

Paura che invece Alley Russo alias Cheryl Della Pietra non ha, perché sceglie di raccontare la sua storia di de-formazione nero su bianco, senza abbandonare mai il desiderio di scoperta.

Giulia Pusceddu

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