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“The show must go on”: i veri volti dei mondiali in Qatar

      Intervista a Valerio Nicolosi

Volti di uomini, volti di persone, le loro vite e il loro lavoro, che troppo spesso ne rappresenta anche la morte. Questo racconta la mostra fotografica del reportage di Valerio Nicolosi “The show must go on”, presentata giovedì 17 novembre al Brancaleone, nel quartiere Montesacro di Roma.

Valerio Nicolosi è un giornalista, regista e fotografo, che si occupa di tematiche sociali, rotte migratorie e Medio Oriente. Ha tenuto diversi seminari in numerose università palestinesi e italiane tra le quali anche l’Università Sapienza, dove prossimamente sarà di nuovo ospite per incontrare gli studenti del Coris.

Nella sua attività ha realizzato moltissimi reportage e documentari in America Latina, Medio Oriente e in Europa e a febbraio del 2022 si è recato a Doha, capitale del Qatar, per parlare anche di questa storia. Le foto sono state scattate nello stadio dove si giocherà la finale e nel villaggio operaio adiacente, costituito da container, dove in quel momento vivevano circa 1000 persone.

Costruiti da zero, gli stadi per i mondiali di calcio, hanno visto lo sfruttamento di migliaia e migliaia di lavoratori, soprattutto migranti, causandone in molti casi la morte. Il paese arabo non ha infatti una cultura calcistica ma possiede una grande influenza a livello internazionale. Si può parlare di soft power, quell’abilità di un potere politico di persuadere e convincere in forma indiretta, in questo caso, tramite il possesso di grande quantità di Gas e non solo. Il paese sta infatti investendo grandissime quantità di dollari per accreditarsi a livello internazionale e i mondiali di calcio ne sono solo il simbolo più sfarzoso.

La sua popolazione è di circa 2,5 milioni di abitanti di cui solo il 10% ha la cittadinanza qatariota, ricchi o medio ricchi, mentre il restante 90% sono stranieri, principalmente del sud-est asiatico, che godono di pochissimi diritti e che vivono di questo, lavorando per i grandi spettacoli dell’Occidente.

Con turni estenuanti e condizioni di vita ai limiti del proibitivo, guadagnano stipendi bassissimi, tra i 300 e i 400 euro al mese, in un paese dove la ricchezza della vita è altissima. Sono così costretti a vivere isolati nelle loro comunità, vere città nella città, spiega Nicolosi.

Amnesty International ha stimato in circa 15.000 le persone che in Qatar hanno perso la vita tra il 2010 e il 2019. Tra le cause dei decessi, il grande caldo, motivo principale di infarti (basti pensare che i mondiali sono stati organizzati in inverno proprio perché il luogo è stato ritenuto inospitale date le condizioni climatiche), ma anche la sicurezza precaria e le tante ore di lavoro.

Negli ultimi anni, fortunatamente, sono stati conquistati alcuni diritti per la sicurezza grazie alle pressioni delle organizzazioni internazionali e soprattutto del BWI, il sindacato internazionale degli edili, ma la situazione rimane particolarmente critica.

Si è parlato di meccanismi sportivi internazionali che hanno cercato di mettere in luce e quindi opporsi a questo tipo di sfruttamento. A tale scopo è stata organizzata una partita tra giocatori professionisti e una rappresentanza di operai ma si è trattato solo di un momento di solidarietà sporadico. Altri tentativi solidali sono stati infatti vietati. Per esempio, la FIFA non ha permesso alla nazionale danese di allenarsi con la maglia con su scritto “diritti per tutti”.

Ma domenica The show must go on quindi, anche se sulla pelle di 15 mila persone.

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