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L’intimista nostalgia audiovisiva di Aftersun

Pochi film hanno fatto parlare di loro durante l’ultima stagione cinematografica quanto Aftersun (2022) di Charlotte Wells. La giovane regista di Edimburgo ha regalato agli spettatori un lungometraggio di debutto intimista e nostalgico in cui passato e presente si intrecciano indissolubilmente grazie alla potenza evocativa dei ricordi. L’atipico coming of age, vincitore del premio per il miglior esordio registico ai BAFTA e candidato agli Oscar per la performance di Paul Mescal, racconta la storia di Calum e Sophie, padre e figlia di origini scozzesi spesso scambiati per fratello e sorella. I due passano una settimana di vacanza in un resort turco, trascorrendo le loro assolate quanto statiche giornate tra immersioni, escursioni nella natura e performance al karaoke. Calum presenta evidenti segni di depressione che cerca a più riprese di nascondere dalla figlia, ignara di ciò che lo turba realmente nel profondo. La cineasta, che ha scritto anche la sceneggiatura della pellicola, infatti, non chiarisce mai in maniera netta le ragioni dell’oscuro male provato dal personaggio interpretato da Paul Mescal, evitando così di scadere nel mero didascalismo e donando al pubblico un ruolo attivo nel determinare i non detti. Il colpo di scena del film rivela esplicitamente che le vicende mostrate su schermo sono in realtà il ricordo di quella vacanza filtrato dalla memoria di Sophie, ormai adulta.

 

Charlotte Wells è riuscita a girare un esordio cinematografico in cui la forma della messa in scena è asservita con grande maestria alla sostanza del messaggio che intende trasmettere. La regista, infatti, si serve di numerosi espedienti filmici e soluzioni audiovisive ricercate per raccontare l’introspettiva storia di Calum e Sophie. I ricordi della protagonista sono confusi, incerti e corrotti dall’inesorabile scorrere del tempo. Lo sguardo della cineasta, quindi, cerca di replicare l’estetica dei nostalgici filmati di famiglia girati in Super 8 allo stesso modo in cui la memora dell’oramai trentenne Sophie si aggrappa all’immagine sbiadita di quelle vacanze. Servendosi, a proposito, di inquadrature mediate tecnologicamente dall’ormai obsoleta telecamera digitale utilizzata durante le vacanze da Sophie per documentare le attività compiute assieme al padre. Parafrasando le parole pronunciate dai teorici dei media Jay David Bolter e Richard Grusin nel loro celebre testo Remediation (1999) possiamo dire che l’estetica degli old media è, allo stesso tempo tanto immediata quanto ipermediata. Considerabili alla stregua dei filmati found footage che hanno reso celebri pellicole horror quali The Blair Witch Project (1999), Rec (2007) e Paranormal Activity (2009), le immagini riprese dalla telecamera, grazie alla loro estetica degradata ed imperfetta, appaiono dunque maggiormente immediate e spontanee. D’altra parte, questo effetto è ottenuto però “ipermediandole” attraverso l’utilizzo di un ulteriore medium che, con la sua riproducibilità tecnica, per citare Walter Benjamin, si pone come un ulteriore filtro che si frappone tra lo spettatore e l’evento rappresentato.

 

Oltre ad interpolare nella narrazione le riprese di quella vacanza in Turchia, ibridandoli con gli offuscati ricordi di Sophie, Charlotte Wells inquadra i due personaggi servendosi a più inquadrature di superfici che riflettano la loro evanescente sagoma. Questo accade nel piano sequenza statico in cui la macchina da presa indugia su un televisore a tubo catodico, sul quale viene proiettata una ripresa delle vacanze prima di venir spento e mostrare il riflesso dei due protagonisti. La stessa cosa succede quando le figure di Calum e Sophie vengono catturate riprendendo l’azzurro specchio d’acqua della piscina del resort. Inoltre, sempre dal punto di vista della composizione delle inquadrature, la regia di Charlotte Wells indugia su alcuni particolari, concentrandosi su dettagli intimi come le mani dei protagonisti che si intrecciano tra loro o una polaroid che li raffigura assieme. Simboleggiando, così, alcuni ricordi della sfuggente figura del padre rimasti impressi in maniera indelebile nella mente della giovane Sophie. La memoria della protagonista, quindi, si ibrida a doppio filo con la testimonianza di un tempo ormai lontano rappresentata dai filmati amatoriali. La messa in scena, così evanescente e onirica allo stesso tempo, sembra infatti una polaroid sbiadita dagli effetti del tempo, un ricordo ovattato e distante in cui la memoria di Sophie ormai adulta ha bisogno di aggrapparsi ai filmati amatoriali girati trent’anni fa per avvicinarsi alla figura del padre ormai assente nella sua vita. Il paragone con la polaroid non è casuale dato che la regista stessa ha affermato che l’ispirazione per la pellicola è nata da un autoscatto che la ritrae con suo padre, una delle poche testimonianze del loro rapporto. Inoltre, una polaroid che immortala in maniera effimera i due protagonisti viene inquadrata dalla cineasta prima del commovente finale in cui passato e presente, la memoria e il desiderio di connessione con un padre ormai scomparso si ibridano indissolubilmente.

 

La potenza e il simbolismo delle immagini, inoltre, sono corredati da un commento sonoro altrettanto evocativo e nostalgico. La composizione della colonna sonora è affidata a Oliver Coates, che immagina degli affreschi intimisti che sono il corrispettivo uditivo delle immagini imperfette dei filmati che ritraggono l’ultima vacanza di Calum e Sophie. I brani originali sono delle nostalgiche cartoline ambient in cui tremolanti sezioni d’archi si ibridano, come in Limit, a onde di rumore bianco che ricordano i pixel sgranati di un vecchio filmato di famiglia girato in Super 8. Anche i brani editi hanno un ruolo importante nel plasmare il nostalgico immaginario filmico di Aftersun, posizionandolo temporalmente negli anni Novanta. Le azioni quotidiane apparentemente banali, ma che per Sophie ormai adulta diventano una preziosa testimonianza degli ultimi momenti passati con il padre, vengono arricchite da celebri brani come Tender dei Blur o Losing My Religion dei R.E.M. Attorno ad un remix di Under Pressure dei Queen e David Bowie, ad esempio, è costruita la commovente scena finale della pellicola, nella quale Sophie riesce metaforicamente ad abbracciare il padre ormai scomparso. Le immagini della vacanza vengono alternate a quelle che hanno luogo in una discoteca immaginaria irrorata da luci stroboscopiche à la Neon Demon (2016), mentre le voci di Freddie Mercury e del Duca Bianco cantano, volutamente con fare autoriflessivo rispetto al profilmico, “This is our last dance / This is ourselves”. Contribuendo a creare un climax emozionale capace di far dialogare le due linee temporali della pellicola grazie al montaggio cinematografico, tenendo assieme chi eravamo una volta con chi siamo diventati.

 

A rendere la pellicola un dipinto nostalgico ci pensa anche la fotografia dalle tinte impressioniste di Gregory Oke che predilige i colori caldi che ricordano le atmosfere assolate del resort in cui Calum e Sophie passano la loro ultima settimana assieme. I dialoghi scritti dalla regista, invece, si concentrano sulle interazioni tra i due protagonisti, filtrando anche quest’ultimi dalla prospettiva di Sophie. È attraverso il suo sguardo che si intuisce il malessere che sta dilaniando Calum senza mai realmente chiarire la ragione del suo comportamento e lasciando volutamente aperti alcuni interrogativi a cui è lo spettatore che è chiamato a rispondere. Come quello che riguarda il destino del personaggio interpretato da Paul Mescal, assente nella vita di Sophie ormai adulta ma catturato, in maniera imperfetta, dai suoi evanescenti ricordi e dall’imperfezione dei preziosi filmati amatoriali. Reperti analogici che permettono di accedere alle parti più remote della memoria di Sophie in cerca di un empatico abbraccio con il lontano ricordo del padre. Ibridando ciò che è stato con ciò che sarebbe potuto essere.

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