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Il commovente documentario “Non ne parliamo più” riscatta la memoria storica degli harki, i combattenti algerini al fianco dei francesi

Moltissime pagine della storia contemporanea sono spesso sconosciute ai più o, ancora peggio, rimosse volutamente dalla memoria collettiva con chiaro intento politico. “Non ne parliamo più – l’inferno a cui siamo sopravvissuti”, documentario scritto e diretto da Cécile Khindria e Vittorio Moroni, prodotto da 50Notturno e proiettato per la prima volta il 28 novembre all’interno del Torino Film Festival, racconta di una vicenda poco nota rispetto alla celebre e sanguinosa guerra che l’esercito francese e quello del Fronte di Liberazione Nazionale algerino hanno combattuto dal 1954 al 1962, anno d’indipendenza della ex-colonia francese. Lo sguardo documentale dei due registi cerca di far luce sul destino degli harki, gli algerini che, per un motivo o per un altro, si sono ritrovati a combattere a fianco dell’esercito repubblicano. Una volta terminata la guerra durata otto anni gran parte di loro sono scappati in Francia per evitare il linciaggio da parte di chi sosteneva che l’Algeria dovesse appartenere agli algerini. Una volta fuggiti dalle loro terre natali, però, vennero internati e segregati dal resto della popolazione. Ghettizzati all’interno di campi recintati col filo spinato assomiglianti ai lager nazisti, gli ex-combattenti e le loro famiglie vennero abbandonati al loro destino in strutture fatiscenti, come quelle a Bias nel sud ovest della Francia. Il processo di confinamento attuato dal governo causò molteplici omicidi all’interno delle strutture, dove pedofili e criminali si trovavano a convivere negli stessi spazi di donne e bambini. Ma non solo: gli abitanti di Bias erano ridotti ad uno stato bestiale dove gli veniva concesso di lavarsi una volta a settimana, non gli era possibile accedere all’educazione pubblica e, se disobbedivano agli ordini del direttore del campo, rischiavano l’internamento in riformatorio o, ancora peggio, in istituiti psichiatrici come quello della Candelie.

Lo sguardo di Moroni e Khindria segue le vicende di Sarah Djafour, nipote di un harki decisa a portare a galla una volta per tutte il passato rimosso che infesta la storia della propria famiglia come uno spettro. La protagonista è tormentata ossessivamente da alcune domande: “Perché gli harki si schierarono con  l’esercito francese e non, invece, con l’FLN?” oppure “Perché solamente in pochi vogliono far emergere la verità?”. Il viaggio in cerca di risposte della protagonista la porta nel cuore di Bias, tutt’oggi abitato nonostante il campo sia stato smantellato negli anni Settanta in seguito a delle proteste portate avanti da gruppi di harki. La pluralità delle voci intervistate ricostruisce il calvario che questo gruppo sociale ha dovuto passare dopo che l’Algeria si è resa indipendente: le storie di Rabah, Mamie, Fatma, Mohand si intrecciano ricostruendo, passo dopo passo, il tassello mancante nei libri di storia francese. Il particolare si trasfigura in universale, diventando il grido di un popolo perseguitato doppiamente, sotto il fuoco dei fucili dell’FLN prima, dallo stigma dell’amministrazione De Gaulle dopo. È emblematico che i vertici dello stato francese abbiano chiesto scusa alla minoranza harki solamente nel 2020, assumendosi le proprie responsabilità per la segregazione operata nei loro confronti. I due registi si servono delle parole fuori campo della protagonista e delle sue intervista per guidare la narrazione, catturata e ripresa con una regia minimale, ma empatica, che si sofferma sui volti sofferenti degli harki ormai anziani e provati dal fardello che si portano dietro sin da piccoli. Nonostante la regia documentale non mancano alcuni interessanti guizzi visivi, come l’inquadratura, ripresa anche dalla locandina del film, che immortala la protagonista da un parabrezza di una vettura investita da una tempesta di pioggia. Un plauso anche per la colonna sonora avanguardistica dalle tinte ambient composta dal pianista Mario Mariani, un ottimo commento sonoro originale alle immagini su schermo. Interessantissimo anche l’uso del materiale d’archivio, sia filmico che fotografico, che agisce come trait d’union tra passato e presente, mostrando i momenti  di vita quotidiana all’interno del campo di Bias di quei bambini che, ormai anziani, vengono intervistati dalla protagonista del film.

Il risultato di questa operazione è un commovente lungometraggio in cui si cerca, con successo, di rimarginare una ferita ancora aperta per parte del popolo francese. Rintracciare la verità significa scavare in profondità all’interno dell’inconscio collettivo di un popolo ingiustamente ghettizzato e marginalizzato dallo stesso Stato per cui, fino a poco tempo prima, combatteva. Il dolore degli harki e dei loro discendenti scorre nelle lacrime dei familiari di Sarah quando rievocano le sofferenze inanellate negli anni di ingiustizie subite. Nella forza delle mogli dei combattenti, che hanno dovuto pagare sulla loro pelle le conseguenze delle scelte dei loro mariti. Un riuscitissimo documentario, intrinsecamente politico, che sceglie di ribellarsi all’omertà e all’indifferenza, portando a galla la verità dalle acque torbide della storia scritta dai potenti.

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