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Indifferenza: una malattia curabile. Le minoranze in Turchia attraverso il racconto della diaspora

“L’indifferenza è una malattia curabile”: questo è il titolo del progetto di ricerca guidato dalla professoressa Mihaela Gavrila, docente presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca sociale dell’Università La Sapienza di Roma, all’interno del quale si è sviluppata la conferenza tenutasi il 30 novembre in modalità telematica. Il comitato organizzativo, che ha visto la partecipazione del professor Fulvio Bertuccelli, ricercatore presso il Dipartimento di Storia, Antropologia, Religioni, Arte e Spettacolo della Sapienza, della professoressa Gavrila e del professor Fabio L. Grassi, docente del Dipartimento di Storia dell’Europa Orientale presso La Sapienza, si è espresso all’apertura dell’incontro. I saluti istituzionali sono stati riservati agli interventi di Tito Marci, professore associato presso la Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione della Sapienza, Alessandro Saggioro, professore di storia delle religioni presso La Sapienza e Mihaela Gavrila.

Minoranze e diaspore: dall’Impero ottomano alla Repubblica di Turchia

Un anno dopo la conquista di Costantinopoli, nel 1454, fu istituito il  governo Millet.  Tale sistema di governo divideva la nazione tra i Millet-i Hakime, ovvero le comunità che avevano potere decisionale, cioè i musulmani e i Millet-i Mahkume, i non musulmani, coloro che erano costretti a obbedire ai primi; di conseguenza i non musulmani, sebbene godessero di alcune autonomie, tra cui quella religiosa, erano considerati sudditi dei musulmani. Durante il periodo dell’Impero ottomano non esisteva il concetto di minoranza, ha spiegato il professor Baskın Oran, docente della Facoltà di scienze politiche all’Università di Ankara e autore del libro Minorities & Minority Rights in Turkey. From the Ottoman Empire to the Present State. A seguito del Trattato di pace di Losanna del 1923, firmato tra la Turchia e le Potenze dell’Intesa che hanno combattuto nel corso della Prima guerra mondiale, la delegazione di Ankara ha accettato di considerare solamente i cittadini turchi appartenenti a minoranze non musulmane come legittimi destinatari della protezione internazionale rifiutando, quindi, le minoranze di razza e lingua e sancendo il primato della religione come fattore fondamentale legato all’identità. Nel nuovo stato-nazione, solamente i sunniti-hanafi-musulmani-turchi possedevano la sovranità nazionale. La Turchia ha infranto molti degli accordi stipulati al momento della firma del Trattato di Losanna e queste violazioni si verificano ancora oggi con l’attuazione di politiche che mirano all’oppressione dei popoli con caratteristiche diverse dal gruppo etnico-religioso dominante.

L’incognita delle scuole greche a Istanbul

Il professor Samim Akgönül, direttore del Dipartimento di studi turchi dell’Università di Strasburgo, ha messo in luce gli ostacoli che la comunità greca a Istanbul affronta giornalmente. Negli ultimi anni si è assistito a un drastico calo del numero dei greci nativi di Istanbul e questo ha influito sul normale svolgimento delle attività scolastiche destinate alla comunità, che resistono solamente per non permettere la definitiva scomparsa di questa storica minoranza della città. A seguito dei recenti sviluppi, tuttavia, si è potuto assistere al rifiorire della comunità greca. Dagli anni 2000, infatti, a seguito della crisi economica in Grecia, molti greci si sono trasferiti a Istanbul; inoltre, negli ultimi trent’anni, la città ha accolto favorevolmente ortodossi di lingua araba, soprattutto di Antiochia, i cui figli frequentano scuole greche. Infine, queste ultime sono diventate la sede privilegiata di attività quali convegni e mostre.

I curdi nella Repubblica di Turchia: la lotta per i diritti

La storia dei curdi nella Repubblica di Turchia è stata ricca di conflitti per l’ottenimento dei diritti umani e politici, ha spiegato la professoressa Clémence Scalbert-Yücel, docente di studi curdi presso l’Università di Exeter. All’inizio del ventunesimo secolo, in conseguenza della nascita del partito della Giustizia e dello Sviluppo, che oggi è il principale partito turco, fondato da Recep Tayyip Erdoğan e da membri di vari partiti islamisti conservatori,  la realtà curda ha ottenuto maggior visibilità nella sfera pubblica, grazie ad alcune concessioni nella sfera culturale, linguistica e politica; tuttavia, gli ostacoli che la comunità  si trova ad affrontare nella realtà odierna, sono ancora numerosi: molti politici curdi sono in carcere o rischiano pene detentive a lungo termine e la lingua curda è lungi dall’essere riconosciuta come lingua del paese, inoltre, i cittadini curdi sono sottoposti giornalmente ad attacchi razzisti che sfociano spesso nella violenza.

Ebraismo e identità: tra kemalismo e mobilitazione sionista

La comunità ebraica in Turchia ha subito un netto ridimensionamento dalla prima metà del ‘900 a oggi: molti ebrei si sono spostati dalla Turchia verso l’Europa, gli Stati Uniti e Israele, passando da una realtà di 80.000 membri a 15.000. Oggi la comunità ebraica si concentra prevalentemente nelle città di Istanbul e Smirne, ha spiegato Kerem Öktem, professore di Relazioni Internazionali presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. Gli ebrei hanno sempre sottolineato la loro fedele appartenenza prima all’Impero ottomano e, successivamente, alla Repubblica di Turchia. Durante il periodo repubblicano la comunità si è scissa tra il desiderio di giurare fedeltà al kemalismo, ovvero alla lotta di liberazione nazionale dei popoli della Turchia da parte del Movimento Nazionale Turco, guidato dal generale Mustafa Kemal Atatürk, che nel 1923 portò alla fondazione della moderna repubblica di Turchia, e la  mobilitazione sionista. Con l’espansione dell’antisemitismo il compromesso tra kemalismo e sionismo si è presto rivelato impossibile, generando un’altra ondata migratoria in particolare verso Israele. Oggi le tradizionali comunità ebraiche, che hanno resistito al mutamento storico e sociale, restano in disparte.

Hrant Dink e il risveglio della coscienza armena

Paria, emarginati: questa è la condizione dei non musulmani in Turchia, secondo la professoressa Arus Yumul, docente di sociologia all’Università Bilgi di Istanbul, che ha ripreso il concetto da Hannah Arendt. Gli armeni in Turchia sono stati esclusi dalla sfera politica e, accettando con sottomissione questa condizione imposta dall’esterno, non hanno tentato di rivendicare la propria esistenza politica e umana. Solamente negli anni ’90 è iniziata una claudicante mobilitazione che si è sempre più rafforzata nel corso degli anni. Fautore di questo cambiamento è stato Hrant Dink, giornalista e scrittore turco d’origine armena, assassinato nel 2007 a Istanbul. L’omicidio di Dink ha suscitato profondo scandalo e, per la prima volta, ha permesso di realizzare un’analisi, non più sfocata, delle condizioni a cui gli armeni erano stati sottoposti per molti anni e, sebbene gran parte della popolazione abbia scelto di rinnovare il silenzio, un corteo di oltre centomila persone ha sfilato lanciando slogan per la riconciliazione e mostrando cartelli che riportavano la frase «Siamo tutti Dink, siamo tutti armeni».

Le lingue viventi delle minoranze: riconoscimento e dignità

A seguito del 29 ottobre 1923, con la proclamazione della Repubblica, il problema delle diaspore e delle minoranze in Turchia ha acquisito una dimensione giuridica e politica. Tutte le comunità sono state riunite sotto un’unica identità, quella turca, ad eccezione dei non musulmani. Dal 2012 è stato avviato, anche se progressivamente, l’insegnamento di alcune lingue a cui prima di allora non era mai stata accordata la giusta rilevanza, come quelle dell’Anatolia. L’insegnamento di Lingue e dialetti viventi, infatti, è stato introdotto nella didattica come corso opzionale che gli studenti possono scegliere dal quinto anno di scuola elementare in poi; inoltre, la lingua adighè e l’abcaso, considerate lingue circasse, sono state inserite nei corsi della scuola materna fino a quelli universitari. Il professor Cahit Aslan, docente di sociologia presso l’Università Çukurova, ha sottolineato come, sebbene la strada sia ancora lunga, si possa intravedere un graduale e fondamentale cambiamento in atto.

Gli Aleviti e la progressiva costruzione di un’identità comune

Gli aleviti non sono mai stati un gruppo coerente, con una chiara identità comune, ha spiegato il professor Martin Van Bruinessen, docente di studi comparati delle società musulmane contemporanee presso l’Università di Utrecht. Inizialmente divisi in comunità sparse in differenti zone rurali, separati da credenze e pratiche divergenti, hanno successivamente avviato un processo di migrazione verso i centri urbani. Così differenti, eppure, così simili, nell’oppressione da parte dei musulmani sunniti. La consapevolezza sviluppata nel tempo nei confronti della tirannia ha portato alla presa di coscienza di una comune identità alevita. Oggi gli aleviti costituiscono un gruppo religioso e culturale che conta circa dieci milioni di membri in Turchia. A seguito della fondazione del Direttorato degli Affari religiosi, Diyanet, un’amministrazione creata il 3 marzo 1924, c’è stato un progressivo processo di assimilazione che dal  1980 ha assunto un carattere più violento, spingendo gli aleviti alla formulazione di numerose richieste politiche focalizzate all’abolizione o alla trasformazione di questa istituzione. Sebbene l’alevismo sia considerato una delle molte sette dell’islam, i riti degli aleviti si svolgono in case assembleari, detti cemevi, piuttosto che nelle moschee. È di fondamentale importanza la richiesta, a tal proposito, di un riconoscimento, da parte dello Stato, di questi centri comunitari. Un altro grande problema riguarda i libri di testo nelle scuole statali, prodotti dal Ministero dell’Istruzione, in cui gli aleviti vengono spesso descritti in modo poco attinente alla realtà e ingiuriati. Ad oggi non esiste in Turchia un ente governativo che rappresenti in modo appropriato questa comunità.

La realtà delle minoranze in Turchia è profondamente ancorata a un passato che non ha permesso la piena espressione di tutte le libertà individuali; proprio per questo è necessario, ha sostenuto la professoressa Gavrila, che le parole di Nelson Mandela, secondo il quale se l’odio si apprende, si può imparare anche l’amore, non vengano dimenticate. Per contrastare le nuove emergenze come la povertà, l’immigrazione, le crisi naturali e sociali, è necessario scommettere sull’educazione e sulla ricerca potenziando, soprattutto, la politica pubblica e perfezionando gli strumenti di comunicazione. Il ruolo fondamentale in questa rieducazione spetta proprio ai media, che hanno il compito di forgiare, attraverso il sapere, le menti e, di conseguenza, il mondo. “I nuovi media devono avere una parte attiva in questa cultura basata sull’educazione ai diritti umani”, ha concluso la professoressa Gavrila.