Riusciamo ad amare nonostante le nostre imperfezioni? La risposta definitiva, probabilmente, non potremmo mai averla, ma oggi vi propongo una prospettiva diversa da cui osservare l’Amore e l’Altro, suggerita da due voci della filosofia del Novecento: la filosofa irlandese Iris Murdoch (1919–1999) e il filosofo francese Emmanuel Lévinas (1906–1995).
Il Bene e l’Altro
Quando facciamo esperienza dell’amore, ci rendiamo conto che si tratta di un processo mutevole, fatto di sensazioni e dinamiche relazionali. Un processo in cui contano, con la stessa intensità, sia l’Io che l’Altro. Amare significa scambiare, dare e ricevere, ma anche accettare di essere vulnerabili. Implica, quindi, un allontanamento dall’individualismo e un avvicinamento all’alterità. Ed è proprio dall’individualismo che Murdoch e Lévinas prendono le distanze, pur seguendo due vie diverse. Entrambi criticano l’egoismo e il razionalismo della filosofia moderna, e partendo da questa rottura costruiscono ciascuno la propria visione morale: Murdoch orientata al Bene, Lévinas all’Altro.
Murdoch, il cui pensiero si arricchisce della visione platonica e spirituale della moralità, crede che al centro della vita morale ci sia il Bene, che non è una regola né un oggetto, ma una forza che ci attrae (Murdoch parla infatti di “transcendent magnetic centre”). Il Bene è dunque, nella visione della filosofa, un ideale trascendente non del tutto definibile, ma reale, e sicuramente qualcosa verso cui possiamo tendere. Più ci avviciniamo al Bene, più usciamo da noi stessi e riusciamo a vedere il mondo e l’altro in modo amorevole, lontano dall’egoismo. Questa tendenza al Bene – e dunque l’etica – si configura come un processo quotidiano di percezione morale, fatto di piccoli gesti, sforzi e miglioramenti (little peering efforts) che possono aiutarci a vedere meglio.
Lévinas, invece, adotta una visione fenomenologica e relazionale: la moralità non nasce da un ideale, come accade per Murdoch, ma dall’incontro con l’Altro, con un altro essere umano.
L’alterità non è quindi riconducibile a un concetto teorico, ma si realizza nella presenza concreta dell’altro nella nostra vita – un incontro che ci attiva, ci interpella, e ci chiede di assumerci la responsabilità della relazione.
Questa responsabilità non avviene per scelta, ma ci accade. La nostra scelta interviene solo dopo, quando decidiamo se restare. Quando capiamo di voler continuare a prenderci cura dell’Altro, pur sapendo di non poter mai “fare abbastanza”. Ed è proprio questa consapevolezza – di non poter mai colmare del tutto il bisogno dell’altro – che trasforma la ricerca della perfezione in un desiderio infinito.
L’abbandono dell’egoismo
Se Murdoch invita a guardare al Bene come a una stella polare che orienta la nostra visione morale, Lévinas ci chiede di guardare un volto, e in quel volto avvertire la presenza dell’Altro in modo autentico, abbandonando la tendenza a considerare l’altro a oggetto di conoscenza o strumento per i propri fini.
In entrambi i casi, quindi, il punto non siamo noi, ma qualcosa – o qualcuno – che ci permette di scoprire la dimensione dell’alterità, in cui non c’è spazio per “il grasso ego implacabile” che vuole controllare tutto, fino a “totalizzare” il mondo.
Per entrambi, l’attenzione all’altro come realtà indipendente è una via d’uscita che apre la strada al Bene (Murdoch) e all’Infinito (Lévinas).
Non posso non pensare, a questo punto, a un episodio della vita di Iris Murdoch: negli ultimi anni della sua vita, la filosofa si ammalò di Alzheimer, e fu suo marito, lo scrittore John Bayley, a prendersi cura di lei quotidianamente, fino alla fine. Penso che questa immagine sia sufficientemente potente per restituire l’essenza della riflessione proposta oggi: l’amore come prendersi cura dell’altro, attraverso le fragilità, e nonostante le imperfezioni che accompagnano la nostra essenza.
L’approfondimento sviluppato in occasione del terzo e ultimo incontro del Seminario di Storia della filosofia analitica, dal titolo “Murdoch and the idea of perfection”, tenutosi Martedì 10 giugno nell’Aula Seminari del Dipartimento di Filosofia.
Articolo a cura di Martina Colantoni