“Un fotografo è letteralmente qualcuno che disegna con la luce. Un uomo che descrive e ridisegna il mondo con luci e ombre“. Così ci ha lasciati Sebastião Salgado, punto di riferimento per la fotografia contemporanea, quando l’ombra è calata sulla sua esistenza il 23 Maggio 2025 all’età di ottantuno anni.
Ombre e luce, il mondo secondo Salgado
Salgado è riuscito a documentare il mondo in tutta la sua complessità, puntando l’obiettivo su realtà spesso invisibili agli occhi del grande pubblico. Il suo tratto distintivo: preferiva gli scatti in bianco e nero, perché riteneva che il colore potesse distrarre l’osservatore e che la luce e l’ombra bastassero a raccontare ogni cosa. Ha ottenuto fama globale proprio per le sue foto in bianco e nero, capaci di restituire la dignità dell’essere umano e la forza primordiale della natura.
Eppure, inizialmente, la sua strada sembrava un’altra. Studiò infatti economia e statistica, fino a quando una missione in Africa cambiò la sua vita e lo spinse a dedicarsi completamente alla fotografia. Nel 1973 realizzò un primo reportage nel deserto del Sahel, documentando la devastazione della siccità e le condizioni estreme dei lavoratori immigrati. L’anno successivo entrò nell’agenzia Sygma, con la quale seguì la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo e i conflitti coloniali in Angola e Mozambico. Passò poi a Gamma (1975) e, nel 1979, alla storica agenzia Magnum Photos. Quando la sua carriera era ormai affermata, decise di intraprendere un percorso più autonomo e fondò, insieme alla moglie Lélia Wanick, la sua agenzia: Amazonas Images.
Il metodo oltre la tecnica
Il modo di fare fotografia si Salgado è molto più di una questione tecnica. E’ un approccio immersivo, paziente e umano. Si potrebbe definire approccio “antropologico“, perchè non si tratta di cogliere l’attimo, come avviene con le istantanee, ma di restare a lungo, di osservare e conoscere i volti delle persone che incontrava, di ascoltare-e rispettare– i silenzi che lo circondavano. Salgado era quindi un fotografo-antropologo, che imparava a vivere nei luoghi che voleva raccontare attraverso le sue fotografie, parlava con le persone che incontrava, dormendo nei villaggi, condividendo cibo, fatica e riti
Non soltanto fotografia
Con la moglie Lélia condivise anche un forte impegno ambientale, culminato nella fondazione dell’Instituto Terra, nato per combattere la deforestazione e promuovere la rinascita di un angolo della foresta pluviale brasiliana. Il progetto, avviato nel 1994 e proiettato al 2027, ha finora portato al rimboschimento di migliaia di ettari di foresta atlantica in Brasile, trasformando un’area degradata in un ecosistema vivo, abitato da centinaia di specie animali e vegetali. È una forma di restituzione, una risposta attiva a ciò che per anni aveva visto e documentato nei luoghi più martoriati del pianeta, dall’Asia all’Africa, senza dimenticare l’Amazzonia, la sua terra. Non a caso, il suo primo libro, Other Americas, è un omaggio al continente che gli ha dato i natali: un viaggio intenso nel cuore del Brasile, tra agricoltori, favelas e lotte per la terra.
La forza trasversale della sua arte si è espressa anche in ambito musicale e cinematografico. Celebre è la collaborazione con Jean-Michel Jarre per il progetto Amazônia, mostra fotografica immersiva accompagnata dalle composizioni elettroniche e naturalistiche del musicista francese. Il risultato è un’esperienza sensoriale profonda: lo spettatore ne esce trasformato, rilassato, e forse anche più consapevole. Altra testimonianza importante è il documentario Il sale della terra (2014), firmato da Wim Wenders e dal figlio Juliano Ribeiro Salgado: un ritratto intimo e potente, che racconta la vita e la visione di un uomo che ha usato la fotografia come strumento di denuncia e di speranza.
Per scoprire di più sulla fotografia di Salgado, tra i suoi progetti più celebri si ricordano anche Workers: Archaeology of the Industrial Age, Migrations: Humanity in Transition e Genesis.
Articolo a cura di Martina Colantoni.