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Moda genderless: il futuro dello stile è senza etichette?

La recente Settimana della moda di Milano e Parigi sembra voler segnare l’ascesa di un nuovo trend che potrebbe ridefinire il concetto stesso di abbigliamento: la moda genderless. Marchi di alta moda hanno presentato collezioni che sfidano le convenzioni di genere, proponendo capi che escono dalle tradizionali categorie di maschile e femminile. Tra le passerelle che hanno maggiormente  attirato l’attenzione spiccano quelle di Alessandro Michele per Valentino, Demna Gvsalia per Balenciaga, Jonathan Anderson per Loewe, che hanno saputo giocare con trasparenze, silhouette morbide e capi destrutturati. Esempi che dimostrano come il rapporto tra moda e binarismo di genere stia evolvendo, segnando una rottura con le tradizionali distinzioni tra abbigliamento femminile e maschile. Anche marchi emergenti come Tanner Fletcher e NO SESSO, hanno fatto irruzione nel panorama fashion, proponendo collezioni dalle linee fluide, tessuti innovativi e una totale assenza di riferimenti al genere.

Da non confondere, quindi, con l’abbigliamento unisex, che propone capi che possono essere indossati sia da uomini che da donne, spesso oversize o dai colori neutri. Un capo genderless, invece, non è pensato per adattarsi a entrambi i sessi, ma esiste al di fuori di questa logica: la sua creazione, dal bozzetto alla scelta dei tagli e dei volumi, non parte dal presupposto che certi materiali o forme  siano necessariamente destinati a uomini o donne. La moda unisex, nata tra gli anni ’60 e ’70,  è stato senza dubbio il primo grande passo verso un’idea di abbigliamento più inclusiva. Con il tempo, però, è emersa la necessità di mettere in discussione i canoni tradizionali, per rispondere al bisogno di maggiore inclusività e riconoscimento. Il primo tentativo di moda senza genere è stato quello della stilista Rei Kawakubo, che verso la metà degli anni ’80, con il suo brand Comme des Garcons, reinterpreta in chiave gender fluid lo stile semplice e minimalista caratteristico della cultura giapponese. Ma un cambiamento più consistente si è avuto solo a partire dai primi anni del 2000, quando Hedi Slimane, allora direttore della linea Dior Homme, oggi a capo del brand Saint Laurent, iniziò ad esporre nelle vetrine della boutique dei tailleur pantalone adattabili anche al corpo femminile.

La moda genderless è al centro di un dibattito complesso: si tratta di una semplice strategia di marketing, adottata dai brand oppure è il riflesso di un reale cambiamento sociale e culturale? Sicuramente, la comunicazione e il marketing digitali agiscono da cassa di risonanza, ampliando la portata di questo fenomeno, che rispecchia le necessità crescente delle ultime generazioni di esprimersi senza etichette restrittive. Questo è chiaramente colto dai brand di ogni categoria, dai più esclusivi ai più accessibili, che si impegnano a essere più inclusivi, senza però perdere di vista l’obiettivo delle vendite.  Investire in collezioni genderless significa anche rivalutare l’identità del brand e tutti i canali comunicativi che lo circondano, dalle pagine social, con le foto dei modelli, fino alle sezioni dedicate allo shopping online sui siti web. Inoltre, implica anche un cambiamento nella logistica dei negozi, per ciò che riguarda l’organizzazione dei camerini, attualmente ancora separati per uomini e donne, o dei reparti, che con il genderless potrebbero essere divisi per stile, colore o tipo di capo, anziché tra “uomo” e “donna”.

Si tratta di un cambiamento significativo, per il quale forse non si è ancora del tutto pronti. Tuttavia, osservando le ultime passerelle, la non categorizzazione delle sfilate e la mancanza di etichette in molte delle ultime collezioni sembrerebbero confermare il fatto che la moda senza genere non si tratta solo di un trend passeggero, ma anzi, una tendenza sempre più stabile, che potrebbe diventare duratura.

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