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L’Italia e la prevenzione del danno ambientale: a dieci anni dal recepimento della direttiva comunitaria

 

      Intervista Prof.Giulietti

Nel 2006 l’Italia recepiva per la prima volta la direttiva europea 2004/35CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. A dieci anni di distanza dalla sua acquisizione si può, dunque, incominciare a valutare l’esperienza nazionale in materia e ad individuarne le prospettive e i limiti: questo infatti è stato l’oggetto della lezione che il professore Walter Giulietti, docente dell’Università degli studi dell’Aquila, ha tenuto il 27 febbraio presso il Dipartimento di Scienze politiche de la Sapienza.

Dopo dieci anni di gestazione, nel 2004, la Comunità europea arriva a disciplinare un aspetto fondamentale della giurisprudenza in materia ambientale, ovvero la responsabilità civile (con imputazione soggettiva) per danno ambientale quale espressione della norma “chi inquina paga”, arrivando a delineare un quadro giuridico che vede ai quattro vertici, oltre a questo principio, quello di “precauzione”, quello di “immediata riduzione del danno” e infine l’aspetto della “prevenzione” che costituisce la vera grande innovazione legislativa. L’uniformità interpretativa e applicativa delle linee indicate dal decreto a livello europeo in materia ambientale sarebbe dovuto essere il presupposto necessario alla lotta contro l’inquinamento, pur nel rispetto delle regole della concorrenza e del mercato. La Direttiva 2004/35 avrebbe dovuto, quindi, in questo senso introdurre norme comuni sostanziali e procedurali, invece essa ha finito con l’offrire una disciplina-quadro piuttosto limitata, definita quasi “minimalista” rispetto alle reali esigenze di tutela. La sua importanza, tuttavia, risiede nell’aver introdotto, in materia di tutela ambientale, principi che prima non trovavano spazio in giurisprudenza.

A partire dal 2006, a livello nazionale, il recepimento della direttiva europea trova una forma applicativa peculiare nella legittimazione all’azione di qualsiasi soggetto (chi richiede tutela dal danno), nell’individuazione di una forma di risarcimento che predilige il reale ripristino dello status originario (bonifica) rispetto ad un equivalente pecuniario e nell’investitura dell’obbligo di informazione, vigilanza e intervento dapprima l’operatore professionista (e non) e in seconda battuta il sistema amministrativo. Elementi che in prospettiva, anche grazie ad una tipicizzazione per ambienti (acque, suolo, siti protetti etc.) del danno, hanno trovato, secondo quanto illustrato del professor Giulietti, una soddisfacente applicazione in Italia. I limiti che di contro permangono, invece, sono principalmente riconducibili ai casi nei quali i responsabili del danno non sono individuati/-abili e quindi imputabili; perché magari il danno è riconducibile ad azioni collettive (di tutta la società) o non sono tracciabili perché legati ad attività illegali.

In definitiva, il grande salto di qualità che spetta questa volta, non tanto alle istituzioni, quanto alla società consiste nell’acquisire un nuovo punto di vista: che si liberi della limitata prospettiva antropocentrica che ha dominato fino ad ora ed incominci a considerare l’ambiente non più come un semplice apparato a disposizione dell’uomo ma come un bene comune, un vero patrimonio che la collettività deve tutelare per preservare sia l’ambiente che se stessa in futuro.

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