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L’haiku: l’essenza dell’attimo e la verità nascosta nella semplicità.

Basho e la tradizione dell’haiku

Nel diciassettesimo secolo, lo scrittore giapponese Matsuo Munefusa iniziò a comporre i suoi primi haiku sotto lo pseudonimo di Bashō. Da quel momento, questa particolare forma poetica cominciò a suscitare interesse anche nella letteratura occidentale, lasciando spazio a diverse reinterpretazioni della tradiziona giapponese, tanto che, qualche secolo più tardi, nel Novecento, fu ripresa da poeti come Giuseppe Ungaretti e Salvatore Quasimodo.

Bashō è  lo scrittore giapponese più celebre di tutti i tempi. La sua raccolta di haiku più significativa è Lo stretto sentiero del profondo Nord, in cui racconta il viaggio a piedi compiuto nella primavera del 1689 attraverso il Giappone settentrionale. Il lungo pellegrinaggio, oltre a offrire al lettore una descrizione minuziosa del paesaggio giapponese da un punto di vista naturalistico, si trasforma in un cammino spirituale all’interno dell’anima dell’autore.

Haiku come stile di vita 

La forza di Bashō risiede nella capacità di concentrare in poche righe l’essenza più profonda di un’emozione: un modello espressivo che è diventato una sorta di legge non scritta nella poesia haiku — versi brevi, ma intensi, capaci di trattenere l’attimo. A questo principio si affianca il kigo, parola che in giapponese indica un riferimento stagionale, spesso legato a fenomeni naturali. L’uso del kigo è attestato già nella poesia giapponese anteriore a Bashō: le prime tracce si trovano nei componimenti delle antiche raccolte Manyōshū (VIII sec. d.C.) e Kokinwakashū (inizio del X sec. d.C.). Ma il kigo non è solo un’indicazione temporale, perché spesso racchiude un’atmosfera emotiva: l’autunno può evocare la malinconia, la primavera invece suggerire una rinascita interiore. In questo senso, il kigo diventa una vera e propria chiave d’accesso allo stato d’animo del poeta.

Possiamo immaginare, infatti, che per Basho l’haiku non fosse semplicemente un esercizio stilistico, bensì una forma di meditazione, un approccio al mondo, alla vita e alle emozioni profondamente influenzato dallo Zen. In quest’ottica, la poesia diventa strumento di contemplazione e consapevolezza, capace di cogliere il significato nascosto nelle piccole cose.

La forma dell’haiku

La struttura di un haiku è molto semplice: tre versi composti da diciassette more, distribuite secondo lo schema 5-7-5. Nella metrica classica, la mora è l’unità che misura la durata di una sillaba e, ancora oggi, in fonologia viene usata per determinare la quantità delle sillabe, distinguendole in sillabe brevi (di un solo tempo, una mora) e sillabe lunghe (composte da due tempi, due more).

Dalla poesia alla fotografia

Lo stile dell’haiku rende ogni poesia una storia, un momento sospeso, come un’istantanea — una fotografia dell’anima. Un attimo catturato che racchiude in sé un insegnamento essenziale. Non a caso da questa forma poetica è nato anche un particolare approccio alla fotografia, capace di cogliere il significato profondo delle piccole cose, proprio come fa l’haiku con le parole. Fotografi come Shoji Ueda, Rinko Kawauchi, Masao Yamamoto o Takashi Homma hanno portato avanti uno stile visivo che potremmo definire “haiku fotografico”, in cui l’immagine non racconta una narrazione complessa, ma cattura un sentimento silenzioso, un’intuizione, un equilibrio. In queste fotografie, come negli haiku, la composizione è essenziale, il tempo sembra dilatarsi, e spesso vi è una grande attenzione alla luce, alle stagioni, ai piccoli dettagli del quotidiano. Ogni scatto è come una poesia visiva che invita alla contemplazione. 

Per concludere, vi lascio un consiglio di lettura per scoprire l’haiku e i suoi protagonisti: Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Bashō all’Ottocento (Mondadori, 1997), a cura di Elena Dal Prà.

Haiku_Basho_anima

Scritto da: Martina Colantoni

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