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Lucy Salani e quel “soffio di vita soltanto”, nel documentario di Botrugno e Coluccini

Dal 10 gennaio al cinema la storia di Lucy Salani, la donna trans più anziana d’Italia, in un documentario selezionato alla 39a edizione del Torino Film Festival.

Lucy ha quasi cento anni, all’apparenza è una persona anziana come tante; ama conversare con gli amici, complici in un’ironia affascinante e passeggiare in una Bologna che è un rifugio per storie molto spesso bistrattate, ma il suo volto riferisce una versione differente: quella di chi si è dovuto conquistare la quotidianità a caro prezzo.

Classe 1924, nasce in provincia di Cuneo come Luciano, ed è ben presto oggetto di abusi da parte di uomini che approfittano del suo silenzio in cambio di denaro. Dopo il trasferimento a Bologna insieme alla famiglia, subisce le violenze e i soprusi destinati agli omosessuali in epoca fascista. Costretta ad arruolarsi nel 1940, tenta la fuga più volte, fino alla deportazione nel campo di concentramento di Dachau, dove assiste inerme ai più orribili atti di odio. A seguito della liberazione inizia a girare l’Italia con alcune compagnie teatrali e circensi, vivendo di piccoli sketch comici e lavorando come ballerina di rivista.  Dopo un periodo a Bologna, durante il quale si acuiscono i dissidi con la famiglia, che non riesce ad accettarla, si trasferisce definitivamente a Torino. È un incontro tra anime affini quello con Patrizia, sua “figlia”, un’adolescente rimasta orfana che inizia a vivere nel suo appartamento. Il loro rapporto di amicizia dura fino al 2014, quando Patrizia scompare prematuramente. In seguito, Lucy torna a vivere a Bologna, rifiutando di cambiare il suo nome: «Me lo hanno dato i miei genitori, è sacro. Perché una donna non si può chiamare Luciano? Perché no?». Oggi vive insieme a Said, un quarantenne marocchino che considera suo nipote.

Senza tono profetico o moralistico, dolore e gioia si uniscono nel suo racconto, fornendo una versione dei fatti che spaventa e destabilizza a causa di un’autenticità alla quale non siamo più abituati. Lucy ha cura di non tralasciare alcun dettaglio del suo percorso, riconoscendo l’importanza di difendere la memoria, non solo quella collettiva, ma anche quella individuale, che garantisce un patto di fedeltà con se stessi.

Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, sceneggiatori e registi italiani, tornano a lavorare insieme dopo il successo dei cortometraggi Chrysalis e EUROPA, del 2007 e Sisifo, del 2008, seguiti dai lungometraggi Et in terra pax del 2011 e Il Contagio, del 2017.

«Siamo andati a casa sua a conoscerla e abbiamo passato un pomeriggio con lei, prendendo il tè e mangiando i biscotti, come si fa con una signora di quell’età e le abbiamo detto che volevamo fare un qualcosa su di lei. Abbiamo fatto una lunga intervista di tre giorni in cui lei ci ha raccontato tutta la sua vita. Finiti questi tre giorni abbiamo capito di avere davanti a noi una persona unica, con un vissuto unico e che la sua storia era una storia che riguardava non solo lei ma tutti noi» -hanno dichiarato i registi.

C’è un soffio di vita soltanto è un percorso intrapreso alla fine del 2019 dalla Blue Mirror e impreziosito nel 2020 dal supporto di Simone Isola, che con Kimerafilm aveva già prodotto i primi due lungometraggi dei registi. Successivamente, sono subentrati anche i due coproduttori Giuseppe Lepore per Bielle Re e Flavia Oertwig per Tama Film Produktion. Girato durante la pandemia del Covid-19, il film è prodotto con la collaborazione di Rai Cinema e Sky.

In questo documentario di delicata bellezza c’è l’urgenza di gridare un’alternativa possibile, una via di uscita da un mondo che professa omertà e colpa, al quale Lucy risponde con il suono assordante delle sue ferite, che hanno sancito la sua libertà: l’umanità. Questa non è solo la sua storia, ma anche quella dei personaggi che fanno parte della sua realtà: individui fragili e splendidi da un soffio di vita soltanto.