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Corruzione, mafia e reti: un convegno alla Sapienza sulla criminalità organizzata

Il professore Christian Ruggiero, coordinatore del secondo panel, e il professore Michele Sapignoli dell’Università di Bologna

Lunedì 6 dicembre si è tenuto al Centro Congressi della Sapienza il convegno “Forme della corruzione e legami sociali delle organizzazioni criminali”, organizzato dalla giornalista e europarlamentare Sabrina Pignedoli. Nel comitato scientifico sono stati coinvolti i professori Carmelo Lombardo (Responsabile), Maria Paola Faggiano, Letteria Fassari, Paola Marsocci, Michele Prospero e Christian Ruggiero, mentre del comitato organizzativo hanno fatto parte Ernesto Calò, Milena Mitrano, Aida Picone e Lorenzo Sabetta.

L’incontro è stato introdotto dai saluti istituzionali di Tito Marci, Preside della Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione della Sapienza,  che si è concentrato nel suo intervento nel sottolineare che la criminalità non appartiene ad una classe sociale piuttosto che un’altra, ma che è propria dei sistemi di condivisione. Il prorettore della Sapienza di Roma e direttore del Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Alberto Marinelli si è soffermato sulle occasioni di contatto tra lo sviluppo economico e le risorse provenienti da attività criminali, che entrano anche mimetizzandosi nella finanza, cercando poi di analizzare cosa può fare l’Università attraverso la ricerca e la costruzione di network di studi per rispondere a questo problema emergente. Il rappresentante degli studenti Paolo Brescia ha ricordato le iniziative “Sapienza per la legalità”, supportate da un bando della fondazione Falcone, e “Rappresentanti per la legalità”, che ha come linea guida la trasparenza e l’ascolto tra le parti per creare un ateneo universitario più aperto.

Infine anche l’organizzatrice dell’evento, Sabrina Pignedoli, europarlamentare e giornalista che ha lavorato a lungo sulla mafia, nella sua introduzione ha sottolineato l’importanza del conoscere le mafie per contrastarle, mafie che non possono essere viste come qualcosa che stanno in un altro indefinito, ma che hanno per forza legami con il contesto sociale, e che sempre di più si adattano a nuovi territori, dal nord Italia al resto di Europa.

Il convegno, organizzato in due panel, ha visto alternarsi i commenti e le testimonianze di professori e professionisti da diversi approcci, da quello economico a quello sociologico e del diritto, e provenienti da diverse Università sia italiane che straniere.

Ad aprire il primo panel, condotto da Letteria Fassari, è stato Paolo Pinotti, professore di economia presso l’Università Bocconi di Milano, che si è concentrato nel suo intervento suoi costi della mafia, citando un suo studio del 2010 condotto per il servizio studi della Banca d’Italia in cui ha stimato che la Puglia, senza criminalità organizzata, sarebbe stata più ricca del 15/20%. Pinotti ricorda come non sia facile lavorare con i dati in questo contesto, date le capacità mimetiche che ha assunto la criminalità organizzata e lamentando anche una scarsa cultura della trasparenza dei dati in Italia che può rendere più complesso un certo tipo di lavoro di ricerca. Pinotti parla di come in alcuni contesti la mafia sia infatti vista come creatrice di posti di lavoro, creando un forte rapporto nei territori, e una complementarietà strategica tra la corruzione e l’uso della violenza, citando il “plata o plomo” di Pablo Escobar: soldi o piombo. Per cercare di contrastare i fenomeni di criminalità, per Pinotti possono essere efficaci dei sistemi di early warning, delle metriche e condizioni che possono farci capire che in un appalto qualcosa non stia andando come dovrebbe, analizzando in particolare le procedure negoziate. Attraverso le procedure negoziate infatti c’è la possibilità di limitare i bandi pubblici ad un numero minore di aziende, e se i numeri delle aziende chiamate sono troppo poche questo potrebbe essere considerato un early warning per tenere sott’occhio la situazione e evitare che ci sia un accordo premeditato sotto. Altri dati da tenere d’occhio sono le offerte più economiche, soprattutto quando c’è molta differenza con i competitor, oppure quello dei bandi cuciti addosso ad aziende con infiltrazioni mafiose, in cui si richiedono specifiche molto particolari che corrispondono solo a quelle di una particolare azienda.

Il successivo intervento è stato di Maurizio Catino, esperto di organizzazioni complesse e professore presso l’Università Bicocca di Milano, che si è concentrato sui soggetti esterni alle associazioni mafiose e ai network multilivello che questi creano attorno a sè. Secondo il professor Catino, qualsiasi organizzazione può essere compresa solo attraverso l’analisi della sua rete esterna di relazioni. Se esiste una relazione in un territorio è infatti perchè esiste uno scambio positivo con il territorio, sennò le organizzazioni sarebbero marginali. Le associazioni criminali sono cioè fornitrici di servizi: accesso a nuovi mercati, fornitura di manodopera, limitazioni alla concorrenza, creazione di cartelli, protezione da minacce esterne, risoluzione di controversie (data anche la durata sopra la media europea dei processi civili in Italia). Attraverso questi servizi si crea quindi un patto tra soggetti esterni e associazioni mafiose che hanno bisogno dei colletti bianchi: secondo i dati infatti l’82% dei condannati per associazione mafiosa ha al massimo la terza media. Per superare questi limiti queste organizzazioni necessitano quindi di appoggio da esterni competenti, come commercialisti, avvocati, notai, consulenti finanziari, agenti immobiliari, agenti delle forze dell’ordine, magistrati, sindacalisti e giornalisti. Si modellano quindi 2 diverse categorie di soggetti: i knowledge broker, che permettono il collegamento con aziende e persone sui territori, e i knowledge provider, professionisti che mettono a disposizione le loro conoscenze riducendo l’asimmetria informativa tra le parti in cambio di benefici dalla mafia.

Il seguente intervento è stato quello di Federico Varese, professore di sociologia alla Oxford University, che si è concentrato in particolare sui suoi studi sulla mafia russa. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica ha infatti cercato di capire come sarebbe avvenuto il passaggio dall’economia pianificata a quella di mercato attraverso le privatizzazioni delle grandi aziende russe. La privatizzazione in Russia però è avvenuta senza un solido terreno legislativo attorno, e la mafia assume in quel contesto quel ruolo che lo stato non riesce ad offrire di regolatore dell’economia. Per Varese la mafia è infatti un prodotto dell’economia di mercato moderna che non funziona, in cui lo stato non è in grado di gestire i rapporti economici, e la mafia si sostituisce quindi a questo attraverso la violenza. La mafia non è quindi un fenomeno culturale radicato in una zona specifica, come si può pensare riguardo al sud Italia, ma può nascere anche in contesti molto diversi, basta che ci siano delle simili basi dietro. Nel suo intervento Federico Varese si è concentrato anche sul fenomeno del cybercrime, che dato il suo sradicamento (apparente) dal territorio potrebbe sembrare un fenomeno slegato, quasi opposto alla mafia, ma mostrando come in realtà non è così, portando l’esempio di un hub di cybercrime europeo in Romania, mostrando quindi che anche questi fenomeni di criminalità apparentemente demoralizzata necessitano di rapporti sociali sul territorio.

Ha poi parlato il magistrato Alfonso Sabella, sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo di Gian Carlo Caselli ed ex Assessore alla legalità di Roma Capitale con delega sul litorale di Ostia. In un accorato intervento in cui ha descritto la sua vita di lotta alla mafia a Palermo negli anni ’90, il magistrato Sabella ha raccontato 4 fase della mafia, più una ancora più moderna. Una prima in cui la mafia conviveva tranquillamente con lo stato, in cui non era strano incontrare onorevoli e mafiosi seduti a tavola assieme perchè frequentavano lo stesso ambiente. La seconda mafia è quella che inizia ad attaccare lo Stato attraverso gli omicidi di Piersanti Mattarella (fratello del presidente della Repubblica), carabinieri, politici, fino al culmine di Falcone e Borsellino. A questo punto la mafia capisce di dover trattare con lo Stato. Dopo questo momento lo stato inizia a rispondere con arresti e operazioni che hanno portato a migliaia di arresti. La mafia risponde con ulteriori minacce, bombe a Roma e Firenze nel 1993,  il livello dello scontro tra cosanostra e lo Stato era molto forte. Infine, nella quarta fase, la mafia capisce che lo Stato era più facile comprarselo attraverso le armi delle mazzette. La parte finale dell’intervento di Sabella è dedicato al fatto che sebbene l’Italia abbia investito molto nella lotta alla mafia, non abbia investito nulla nella prevenzione, ovvero nel fare in modo che non si creino le condizioni per la nascita e il sostentamento di queste organizzazioni, con regolamenti delle gare di appalto che lasciano spazio a infiltrazioni mafiose e con una burocrazia lenta che non riesce a rispondere ai problemi reali del paese.

L’intervento di Antonio Laspina, professore della “Luiss” Guido Carlo, si è concentrato in particolare sulla differenza tra le organizzazioni criminali che utilizzano metodi di intimidazione e quelli che invece evitano di usarli, rimanendo coperti o con la minaccia pendente di usarla in un secondo momento. Anche Laspina, come Catino, si concentra sui soggetti esterni alle organizzazioni mafiose, ovvero i contigui, che possono essere clienti dei mafiosi e che si avvicinano volontariamente e consapevolmente a queste per ottenere in cambio dei servizi.

Il primo panel si è concluso con l’intervento del giornalista Andrea Purgatori, conduttore del programma di divulgazione culturale Atlantide su La7, che ha sottolineato l’importanza del ruolo dei giornalisti nelle indagini sulla criminalità organizzata schierandosi contro il professor Catino che li aveva citati tra i possibili soggetti esterni ai network mafiosi, probabilmente fraintendendo alcune parti del suo discorso.

Ad aprire il secondo Panel, condotto dal professor Christian Ruggiero, è stato il professore Michele Sapignoli, dell’Università di Bologna, che ha presentato uno studio condotto con i colleghi Cristina Dallara e Carlo Guarnieri riguardo la corruzione nei governi italiani dal 2006 al 2018. Nel corso della ricerca i 3 professori si sono concentrati sulle indagini, i rinvii a giudizio, le condanne e assoluzioni dei ministri e sottosegretari al governo dal 2006 al 2018, cioè dei governi Prodi II, Berlusconi IV, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, cercando informazioni tra la stampa e confrontandoli con quelli di altri 7 paesi europei, notando un generale grande numero di indagini in Italia che però raramente si conclude con una condanna. Se ad esempio il 70% delle indagini si conclude con una condanna in Francia, in Italia più del 50% delle indagini non arriva neanche al rinvio a giudizio., con un tasso di condanne del 34%. Le tre possibili spiegazioni del fenomeno secondo gli autori della ricerca sono relativi ai mutamenti della competizione politica che dà importanza al controllo della moralità i cui i media hanno un ruolo importante, la struttura dei processi penali che affida ai magistrati notevoli risorse in casi di indagini sulla corruzione o l’assetto istituzionale del sistema giudiziario italiano che riconosce robuste garanzie di indipendenza a giudici e pubblici ministeri con margini di manovra più ampi rispetto a altri paesi europei.

Ha poi preso parola il professore Vincenzo Ruggiero, sociologo e criminologo professore presso la Middlesex University, che ha affrontato il fenomeno della criminalità dei potenti. Se spesso infatti si parla di criminalità come legata alla bassa condizione sociale e a scarse condizioni economiche, può capitare di dimenticarsi i reati dei colletti bianchi, che spesso procurano danni sociali molto più rilevanti di quelli che può creare la microcriminalità. I criminali potenti, nella definizione di Ruggiero, possiedono risorse materiali e simboliche superiori alle vittime. Questo consente una capacità di controllare gli effetti della propria azione, in modo che a maggiori risorse possedute si ha più capacità di respingere le accuse verso di sé e rivolgerle a propria volta contro gli altri. Quella dei colletti bianchi, secondo Ruggiero, è quindi una criminalità che genera egemonia e consenso, fino al punto in cui la devianza non viene neanche più percepita come devianza, e anzi viene ostentata. L’ostentazione rafforza la posizione di compie questi reati, mentre la segretezza neutralizza la promozione di certi comportamenti. Anche la punizione, in questo contesto, viene esibita come emblema di status volta al miglioramento della reputazione. Una delle cause della criminalità dei potenti per Ruggiero risiede nella incertezza e paura del futuro. Citando Hobbes, “gli esseri umani sono gli unici animali che avvertono la fame che avranno domani”. Per questo motivo chi già dispone di risorse cercherà di controllarne sempre di più per paura di perdere quelle che ha. Simbolo di egemonia è ad esempio la tendenza a descrivere la funzione ai potenti come una punizione a chi produce ricchezza e innovazione.

L’ultimo intervento è stato di Alberto Vannucci, professore di scienze politiche presso Università di Pisa che si occupa di lavoro nero e organizzazioni criminali, confermando le parole del professor Vincenzo Ruggiero sul circolo vizioso dell’arroganza e dell’ostentazione e alla tendenza dei criminali di non nascondere atteggiamenti prevaricatori attraverso cui accumulano capitale in termini di potere. Vannucci parla della corruzione come sistema e come rete capace di diramarsi in diverse fasce della popolazione. Citando il politologo Alessandro Pizzorno, ogni stato pone una linea di demarcazione tra il potere esterno ed interno, in cui quello interno rappresenta la parte politica e quello esterno il mercato. La corruzione è quell’attività che tende ad alterare quel confine. Infatti nei casi di corruzione è molto difficile distinguere tra pubblico e privato. Nel contesto attuale gli attori della corruzione si sono moltiplicati e diffusi, una realtà policentrica della corruzione che, vicini al trentennale dell’operazione mani pulite, oltre che un costo economico ha un costo politico nella perdita di legittimazione delle istituzioni, dato che studi citati da Vanucci mostrano come ci sia una correlazione tra la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni e i livelli di corruzione percepita, alimentando un circolo vizioso.