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Battiato, “La voce del padrone” e la rivoluzione del pop italiano raccontati dall’interessante documentario di Marco Spagnoli

Fine estate 1981. Franco Battiato, dopo una lunga serie di dischi sperimentali come “Fetus” e “Pollution”, si converte alla canzone pop, conscio di avere la formula giusta per raggiungere il successo. E aveva ragione: “La voce del padrone” fu il primo album nella storia della musica italiana a superare il milione di copie vendute e, da allora, il mondo del cantautorato non fu più lo stesso. Quei sette brani, entrati di diritto nell’immaginario collettivo, sono la perfetta sintesi tra l’accessibilità della forma canzone, con il suo complesso intreccio tra armonia e melodia, e i guizzi sperimentali dei suoi primi lavori in studio.

L’omonimo documentario di Marco Spagnoli, nelle sale italiane dal ventotto novembre al quattro dicembre grazie a Altre Storie e RS Productions, si apre proprio con un’intervista a Pino “Pinaxa” Pischetola, tecnico del suono e collaboratore di Battiato per molti anni (insieme registrarono anche il disco di musica elettronica “Joe Patti’s Experimental Group”). Il sound engineer mostra agli spettatori la complessità e la genialità degli arrangiamenti dei brani di Battiato, capace di ibridare allo stesso tempo cultura alta e cultura bassa, un coro lirico ad un giro di accordi disco. Svela anche uno dei tanti dei geniali espedienti di mixing disseminati per tutto l’album: Franco in “Centro di gravità permanente” ha registrato due take lievemente differenti della stessa linea vocale, così da avere una traccia finale ibrida e ricca di sfaccettature. Il lungometraggio di Spagnoli parte dallo studio di registrazione milanese di Pischetola fino ad arrivare a Milo, città natale del cantautore siciliano, compiendo insieme a Stefano Senardi un viaggio al contempo fisico e spirituale nel quale il produttore discografico incontra amici e collaboratori di Franco Battiato. Ricostruendo la genesi di uno dei dischi più importanti della storia della musica italiana del Novecento e cercando di dipingere un ritratto dell’artista che tenga assieme la sua estrema poliedricità che spazia dalla musica da camera alla pittura. Tantissime le voci interpellate da Senardi, ma tutte accomunate da una profonda stima per lo scomparso musicista: dopo Pischetola viene intervistata Caterina Caselli, una delle prime produttrici a contrattualizzare Battiato, ma anche la band che incise il disco con il cantante, composta da Alberto Radius alla chitarra, Claudio Pascoli al sax, Filippo Destrieri alle tastiere e Renato Scolese alla batteria e vibrafono. Eugenio Finardi coglie ne “La voce del padrone” la sintesi dei primi quindici anni di carriera di Battiato, risultando nell’album pop perfetto, mentre Morgan, bassista a fianco del musicista siciliano in “Gommalacca”, traccia un parallelismo tra lui e David Bowie, definendo Battiato come il compositore più importante del Novecento e l’artista più internazionale di tutti. Alice, seconda voce nel brano “ I Treni di Tozeur”, invece, ricorda l’estate dell’Ottantadue, quando le note di “Summer on a solitary beach” e degli altri sei brani erano arrivate in ogni paesino d’Italia: il surrealismo mistico capace di ibridare suggestioni esoteriche e citazioni colte a ritmi ballabili aveva conquistato tutto lo stivale. Nanni Moretti, invece, afferma che quelle di Battiato sono canzoni che nascondono una complessità indescrivibile, dall’armonia ai testi, celata dall’apparente ironia e musicalità delle composizioni. Le interviste non sono finite qui: anche Oliviero Toscani, Mara Maionchi, Vincenzo Mollica, Willem Dafoe e Carmen Consoli vengono intercettati dalla macchina da presa di Marco Spagnoli, regalando agli spettatori testimonianze intime e introspettive che cercano di ricostruire la sfuggente figura di Battiato, uno e centomila allo stesso momento. A coadiuvare il regista nel suo intento di cercare di tratteggiare un quadro unitario del cantautore siciliano ci pensano anche i tanti estratti video di repertorio, ora interviste, ora performance dal vivo, che mettono in luce l’innata vena da outsider di Battiato sin dai tempi in cui discuteva di collage sonori registrando suite psichedeliche.

L’opera di Spagnoli riesce efficacemente nel suo intento di raccontare un punto di svolta epocale della canzone italiana, dando voce alle tante anime di cui Battiato si è circondato durante gli anni della sua carriera. Un plauso che va riconosciuto al regista è quello di aver scelto di intervistare personalità tra loro eterogenee e non solo riconducibili al mondo della musica, così da mostrare l’influenza epocale che le sette canzoni de “La voce del padrone” hanno avuto sulla cultura italiana a trecentosessanta gradi. Purtroppo la regia di stampo televisivo non consente un totale coinvolgimento dello spettatore, come invece avviene, ad esempio, in “Ennio” di Tornatore. Nell’ultima parte il documentario perde il mordente iniziale concentrandosi forse fin troppo su alcune arti come la regia e la pittura in cui il maestro si è cimentato parallelamente alla musica: probabilmente sarebbe stato più interessante vivisezionare ulteriormente alcuni dei suoi arrangiamenti più celebri, svelando la magia che si nasconde dietro l’apparente semplicità dei brani de “La voce del padrone”, come avviene nella puntata della serie Sky “33 Giri Italian Masters” dedicata all’album dell’Ottantuno. Poco importa, però, dato che le testimonianze raccolte sono preziosissime. Basti pensare a quella di Vincenzo Mollica, che afferma che Franco voleva che di lui, dopo la morte, rimanesse solo un suono. Nient’altro.